È nell'indimenticabile
collana "Niebo", diretta - oggi come allora fu la
storica rivista - da Milo De Angelis, che Lorenzo Chiuchiu (giovane poeta
perugino de '73) viene ospitato con il suo primo libro di poesie. Di
formazione filosofica e grande studioso di letteratura francese - nonché
curatore di opere di Camus - Chiuchiù timbra i suoi versi con un fuoco
intenso e vertiginoso. Immagini rubate a una continua e vorticosa parabola
dell'esistenza, si fanno radianti e feroci ad un tempo. Attento indagatore
del silenzio e delle sue più accanite epifanie, è come se restasse
sempre in
agguato, sempre posto in una rischiosa esposizione. Ogni verso è calibrato
su un "andare" non perfettamente ritmico, ma decisamente incuneato,
in una
tensionalità ipnotica. Il suo soliloquiare dal dolore è corporativo,
assemblante. Tutto è sospeso tra l'onirico e il delirio e tutto resta
in
bilico su in "inizio" che implode e soffoca. La stessa tensione alla
prosa,
incide sulla volontà dell'autore nel voler dire un reale passaggio
dell'esperienza nelle relazioni e negli affetti: poterli raccontare almeno
come fossero tentativi, riuscite. Il mondo di questa poesia è un reale
privato d'oggettualità e situazioni. Tutto è visitato e percepito
da una
soggettività lirica che si denuda senza risparmio. Ogni verso è
stanziale
nella sua sottrazione, e ogni parola sembra calata da un'esplosione
interiore che non lascia scampo. Di rimbaudiana memoria, è un viaggio
verso
un inferno fatto di dubbi e supposizioni che, nella sua esistenza, sembrano
restare imbrigliati in un un'incubazione perpetua, non attendendo altro che
di esplodere prepotentemente. Ma è nella resistenza e nella ripetizione
che
i salti mortali vengono perfezionati. È, dunque, con questo auspicio,
che ci
si deve rivolgere a questa fonda e ancora troppo "pericolosa" poesia.
Stefano Raimondi